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“Da Castelli ad Atessa ‘Il gran fuoco di Aligi Sassu’, in mostra 60 ceramiche e sculture dal 1939 al 1989”


  • 16 Giugno 2013

“Da Castelli ad Atessa ‘Il gran fuoco di Aligi Sassu’, in mostra 60 ceramiche e sculture dal 1939 al 1989” di A.Cicchitti, in Terra e Gente, a. XXXIII, 2, 2013.

Dal 17 luglio 2013, a conclusione delle celebrazioni del primo centenario della nascita dell’Artista (Milano 17 luglio 1912 - Pollensa/Baleari 17 luglio 2000), il Museo Aligi Sassu di Atessa ospita la mostra “Il gran fuoco di Aligi Sassu. 60 ceramiche e sculture dal 1939 al 1989. Una selezione di opere dal Museo Sassu di Castelli (Te)”, a cura di Adele Cicchitti, Anna Pia Apilongo e Anna D’Intino. Un evento promosso e coordinato da Alfredo Paglione, cognato del grande Maestro e munifico donatore di tutte le opere di Sassu esposte nei musei di Castelli e di Atessa. La mostra è stata realizzata grazie alla sinergia fra Amministrazione Comunale di Atessa, Amministrazione Comunale di Castelli,  Museo delle ceramiche di Castelli, Fondazione MuseAte , Fondazione Crocevia, Regione Abruzzo, BCC Sangro Teatina e società Valagro.

Le opere resteranno in mostra ad Atessa fino alla completa ristrutturazione dell’ edificio museale di Castelli, un ex convento rinascimentale con straordinari ed intatti affreschi settecenteschi nel chiostro, reso inagibile dai danni provocati dal terremoto dell’Aquila del 2009.

Soltanto un anno prima, nel 2008, il percorso espositivo di Castelli si era arricchito della mostra permanente “Il Gran fuoco di Aligi Sassu”, con 200 opere, ceramiche e sculture, realizzate dal Maestro in un lungo arco temporale, dal 1939 al 1994, raccolte e donate da Alfredo e Teresita Paglione.

La scelta di Castelli non è casuale: il fascino paesaggistico del borgo accoccolato all’ombra del Gran Sasso e la plurisecolare tradizione artistica della ceramica avevano già motivato l’interesse  e la curiosità di Aligi Sassu in visita a Castelli. Il Maestro non realizza in vita il desiderio di immergersi nella vita dei vasai, dei  tornianti e degli artisti-artigiani che lavorano nei fumosi forni del pittoresco paesino abruzzese, per un mutuo scambio di esperienze di vita e di arte. Ma  le sue opere ‘aprono’ un dialogo interattivo, proficuo e stimolante con la tradizione locale e favoriscono il confronto fra tecniche diverse, nell’uso della tavolozza cromatica e nella scelta dei soggetti iconografici, in sintesi fra passato e presente.

L’avventura della maiolica castellana, i cui reperti sono  datati fin dal tardo medioevo, matura a pieno il suo iter espressivo nel Cinquecento, quando gli artigiani locali trasformano le argille in meraviglie di forme, di colori e di bagliori, che il fuoco fissa ed  amplifica ad ogni stesura di tinta.

Immerso in un silenzio arcano e magico, il borgo di Castelli  vive delle dinamiche complesse ed ambivalenti della vita di montagna, al tempo stesso madre e matrigna, ed attinge proprio dal paesaggio senza tempo che lo circonda la ragione antica che sorregge il miracolo che si rinnova ad ogni produzione di maioliche. Fatica, sacrificio e pazienza si traducono in perizia tecnica ed in gusto estetico, trasformano la cruda materia e realizzano desideri, sogni ed aspirazioni. L’arte della ceramica oltrepassa i limiti angusti delle laboriose  botteghe del piccolo centro abruzzese e, spinta da un impeto ascetico, diventa un firmamento di luce nel soffitto maiolicato della chiesa dedicata a San Donato (inizi XVII secolo), edificata su una preesistente ‘cona’ della Madonna del Rosario, che Carlo Levi definisce “la Sistina della maiolica italiana”.

Ma anche i chiusi confini del borgo col tempo si dilatano a dismisura e la ceramica di Castelli conquista il gusto dei ricchi committenti, in Italia, in Europa e nel mondo intero. I nomi dei grandi artisti delle famiglie Grue, Gentili, Cappelletti, Fuina ed altri, risuonavano nei secoli scorsi nelle regge e nei palazzi e lo splendore delle loro maioliche ne decorava le sale o brillava sulle loro tavole sontuose.

Un arcipelago di decori, interpreti di stili, gusti e tendenze, impreziosiva ed impreziosisce la produzione castellana. Scorci paesaggistici, profili muliebri e virili, animali e vegetali stilizzati, stemmi e scritte moraleggianti, rosoni e stilemi geometrici, rovine classiche e memorie mitologiche, segni zodiacali, fregi e figure di santi e beati scandiscono e ritmano il repertorio castellano ed ogni segno ornamentale diventa un inno alla bellezza. La scala cromatica privilegia il blu cobalto, l’arancio, l’azzurro, il giallo ed il celeste, inframmezzati dal verde ramina e dal bruno di manganese e da pennellate di rosso e di verde, che accendono di luce i bianchi e gli avori, in un gioco di  iridescenze e di trasparenze preziose e suggestive. In questo variegato universo di figure e di simboli, dai toni riposanti e spesso melanconici, irrompono sferzanti di energia vitale i cavalli di Aligi Sassu che si impennano nella materia greve o nella luminosità degli smalti.

Il colore, acceso e vibrante, declina le emozioni, i gesti ed  i movimenti, scandaglia i segreti nascosti, svela verità profonde e dona slanci di libertà e di vita.

Sugli orizzonti simbolici della creatività l’esperienza artigianale dei ceramisti castellani si incrocia con la grande sperimentazione di Albisola, di cui Aligi Sassu è uno dei protagonisti più prestigiosi.

Raffinata testimonianza del fervore artistico che animava, prima e dopo la seconda guerra mondiale, l’incanto del centro ligure è sicuramente il servizio da tavola “I cavalli del mare”, in 73 pezzi del 1949, che Sassu realizza in terraglia smaltata e dipinta in blu ‘Vecchia Savona’. Esposto nell’allestimento del museo di Castelli, il servizio si carica di rimandi suggestivi e di memorie locali e  nell’immaginario collettivo evoca i rari esemplari della maiolica blu monocromatica che gli artisti-artigiani del borgo abruzzese producevano nella seconda metà del Seicento.

Le argille colorate di Castelli e quelle di Albisola trovano nelle botteghe dei ceramisti il comune denominatore: la materia plasmata dall’esperienza, i segreti dei forni, i colori della memoria, i segni del tempo. Ad Albisola Aligi Sassu compie il suo apprendistato di artista e di uomo. Negli anni 1939-40 vi incontra Agenore Fabbri e Lucio Fontana, diventano compagni di forno, sperimentano tecniche nuove, creano forme e le rivestono di luce e di colore. Si stringono intorno a Tullio Mazzotti d’Albisola, poeta, scultore e ceramista di tradizione familiare, l’anima del borgo e del mondo della ceramica albisolese. Nei suoi versi il forno da vasi è “ un calendario di pietra/immobile nel tempo, sacro bucchero,/ tana di stregoneria e sortilegio”… “può essere uno scrigno,/può essere un canile, un’alcova/… confessionale o carlinga nel sole!”. Perché la vita del ‘vasellaro’ si agglutina intorno al forno, tra muffe, rosarii e bestemmie, sudori e sputi, testardaggine e fatica.

L’essenza della favolosa esperienza  vissuta nel centro ligure è tutta racchiusa nella raccolta di liriche che Tullio d’Albisola intitola significativamente Amore del “Gran fuoco”. Quello dei forni e quello dell’arte che infiamma anche Aligi Sassu a mettere in gioco il proprio talento ed a dialogare con artisti, poeti, giornalisti e critici d’arte che frequentano il cenacolo albisolese.

La cittadina ligure diventa una tappa ineludibile dell’itinerario formativo di ogni artista che voglia affermarsi nel campo della ceramica. Vi soggiornano e vi operano i più grandi nomi del panorama artistico nazionale ed internazionale: Asger Jorn e Karel Appel, tra i fondatori del gruppo Co.Br.A, Wilfredo Lam, Josè Ortega, Sandro Cherchi, Milena Milani ed altre importanti personalità del mondo dell’arte che lasciano il segno della loro creatività nella celebre Passeggiata degli Artisti che impreziosisce Albisola Marina. Vi giunge anche il grande Picasso, ospite di Tullio Mazzotti, spinto dalla curiosità e dalla perizia tecnica di un torniante albisolese che opera nella sua bottega di Vallauris, per condividere l’esperienza degli artisti italiani, apprendere le tecniche artigianali, le più celate risorse dei forni, i misteri del fuoco e tutti gli altri accorgimenti strategici messi in atto dagli esperti vasai albisolesi.

Dalla sperimentazione concreta e dal timbro emotivo della mitica stagione ligure nascono molti dei capolavori di Sassu trasferiti a Castelli ed ora in mostra al Museo Sassu di Atessa. Un’occasione per (ri)esporre al grande pubblico opere penalizzate dalla chiusura del Museo di Castelli e dai tempi lunghi della burocrazia e per far conoscere anche in terra frentana la poliedricità della produzione artistica di Aligi Sassu.

Già nel 2010, per celebrare il decimo anniversario della morte del grande Maestro, le sue ceramiche vengono esposte nel Museo di Villa Urania nella mostra temporanea “Cento Cavalli di Aligi Sassu”, curata da Gian Carlo Bojani ed Alfredo Paglione per la Fondazione Paparella Treccia Devlet. Nell’autunno successivo otto cavalli in bronzo ed il piatto in argento “Cavalli marini”, per volontà di Alfredo Paglione, vengono affidati al Museo di Atessa ed affiancati, in un mutuo scambio di valenze artistiche, di rimandi iconografici e di scelte espressive, alle opere già esposte nella mostra permanente, 90 lavori su carta, acquerelli, disegni, pastelli e tempere, e 120 opere grafiche originali, acquetinte, acqueforti, serigrafie e litografie che coprono gli anni dal 1927 al 1992.

Con l’esposizione in atto delle maioliche provenienti da Castelli, a cui si aggiunge la superba scultura in bronzo “Il bel cavallo reale” del 1949,  nel Museo Aligi Sassu di Atessa si ricompongono in simbolica unità le tre anime del grande Maestro, ceramica, scultura e pittura, segnate dalla dominante iconografia del cavallo che ne scandisce i sentieri artistici e le vibrazioni emotive.

Il linguaggio plastico del grande Artista raggiunge una sintesi matura di materia, colore e forma. Il soggetto cavallo sigla ritmicamente il repertorio delle maioliche, delle sculture e dei dipinti e sprigiona tutta la sua forza espressiva, assecondando le suggestioni del mito, le memorie ancestrali della Sardegna e le dinamiche futuriste, sempre in quello stile personalissimo ed inconfondibile con cui Aligi  Sassu, ha interpretato, con continuità ed estrema coerenza, tutte le varianti dei temi iconografici prediletti.

Scendendo nei dettagli del percorso espositivo di Atessa, è possibile rintracciare il filo continuo che si dipana dalle forme archetipiche fino alle produzioni più mature, cariche di suggestioni oniriche e di racconti epici.

Il maestro plasma il bronzo con forza intensa e vigorosa e la materia si trasforma in superbe figure di cavalli, protagonisti di affabulanti narrazioni mitiche, epiche, liriche. L’Artista stesso ama sottolineare “ho fiducia negli uomini e in una mitologia che va popolando il tempo di cavalli innamorati della poesia, della vita, del cielo, del mare”.

I bronzi di Aligi Sassu presenti nell’itinerario museale di Atessa coprono gli anni 1939-1962, che registrano un progressivo affinamento del linguaggio espressivo, sempre più essenziale ed incisivo.

All’acqua ed alla sua sfera simbolica rimandano le sculture Cavallino marino (1939) , romantico e riposante, Il Cavallo di Nettuno (1939), trasudante la forza generatrice delle onde, i Due cavalli rampanti (1949) che sorgono dai flutti e si impennano con le teste reclinate all’indietro e gli sguardi fissi al cielo, e il Cavallo del mare (1955) che fuoriesce dall’acqua con un impeto di energia che lo libera dalla trappola mortale del mare in tempesta. Anche nel bassorilievo in argento Cavalli marini (1962) quattro cavalli disposti in circolo, nel vortice del movimento, sembrano sgravarsi dell’energia cosmica, primordiale che pulsa nei loro muscoli.

Il Cavallo di Perseo (1940), oggetto di una singolare fortuna critica, più che richiamare la leggerezza di Pegaso alato, sembra uscire dal magma informe della roccia o, più verosimilmente, dal sangue gelatinoso del collo di Medusa reciso dall’eroe greco. Lo spessore del mito avvolge anche I tre cavalli di Abderos (1948), avidi di carne umana ed aggrovigliati nella ferocia che li spinge a divorare Abdero, il giovane compagno di impresa a cui Eracle li aveva affidati. Più poetici I cavalli innamorati (1948), uno impennato che sovrasta l’altro disteso a terra, che, “sospinti dai flutti”, fanno vibrare il cuore, “più sonoro di musica terrestre”, come canta Raffaele Carrieri.  Il cavallo nero (1952) è un gioco intrigante di masse piene e vuote e di sapiente utilizzo nella matrice di sfoglie di argilla ripiegata, e Il bel cavallo reale (1949) chiude la rassegna, imponendosi maestoso e solenne per l’eleganza della figura e del movimento.

Anche nell’arte della ceramica, come si può evincere dai pezzi in esposizione ad Atessa, realizzati dal 1939 al 1989, Sassu raggiunge un ineguagliabile primato, dispiegando negli smalti lo sfavillio del “grido di colore”, come sigla la sua autobiografia, che connota la sua opera ammaliante e fascinosa.

Tra i pezzi unici si impone la lunga teoria di 25 piatti, di dimensioni ridotte, che oscillano fra i 18 e i 25 cm e quasi tutti datati agli cinquanta del XX° secolo, in cui ricorrono i temi iconografici più cari al grande Maestro: ciclisti, teste muliebri e virili e cavalli, soprattutto cavalli, “cavalli galoppanti, rampanti, volanti, per lo più imbizzarriti, pieni di estro, eleganza, mattini di primavera e fantasia; e colore rosso, giallo, bianco, viola, verde; lunghe criniere, lunghe code. L’idea-cavallo abbandonata a sé stessa in scalpitanti fantasmagorie al sole del mediterraneo, su spiagge e dirupi solitari. Cavalli che erano folate di vento, bizze d’amore, fiamme, rondini, strane creature, più simili ad un sogno che a un capitolo di storia naturale. Cavalli essenzialmente lirici”, come li ‘dipinge’ l’esaustiva descrizione di Dino Buzzati, amico e grande estimatore dell’opera di Aligi Sassu.

Alla stagione di Albisola rinviano due piccole e poetiche sculture in maiolica, il Cavallino (1939), modellato a tutto tondo e realizzato nella manifattura Ceramica Mazzotti di Albisola Marina e la Testa di cavallo (1941), dipinta con smalto verde e vetrina. Tra le opere di più grandi dimensioni, e realizzate sempre nella manifattura Mazzotti, un posto esclusivo occupa la maiolica Cavalli in amore (1948), un piatto sagomato con profondo cavetto e scelto come ‘logo’ della mostra di Atessa. Sul fondo giallo, incorniciato da una fascia rossa  con colature, due  cavalli, uno al galoppo e l’altro impennato, si cimentano in una danza d’amore ammaliante, con movimenti esaltati dal contrasto cromatico del nero e del turchese. Parimenti in alcuni multipli ricorre il tema della danza, esplicita nel vortice roteante della maiolica Danza di cavalli (1973) e nei ritmi veloci ed eleganti della porcellana serigrafata Cavalli sulla scacchiera (1974) , ma anche celata negli armoniosi movimenti delle corse solitarie di Cavallo e scogliera (1989) e di Cavallino blu (1965 ), nel groviglio drammatico della porcellana serigrafata La battaglia (1989) e perfino nei tratti aggraziati e poetici di Donna e cavallo (1974).

Un altro pezzo unico, la maiolica a lustro I cavalli di Nettuno (1949), un grande piatto modellato a basso rilievo, si impone per il linguaggio figurativo e la cifra cromatica dei due cavalli marini che si inseguono, uno dei quali immerge la coda squamata nei flutti impetuosi con cui forma un viluppo di intrecci confusi.

Ed ancora altri pezzi unici, le terrecotte dipinte sotto vetrina Nuda sul letto (1949) e La bella sui cuscini (1949), la terraglia smaltata e la maiolica intitolate entrambe Maison Tellier e datate 1950, nel percorso espositivo di Atessa interagiscono con i tanti quadri con la stessa rappresentazione iconografica. Quella delle case di tolleranza, che cattura l’interesse di Sassu che non condanna né censura, semmai rimanda alle suggestioni del racconto di Guy de Maupassant ed alle emozioni edificanti provate dalle meretrici della Maison Tellier per la sofferta nostalgia della purezza perduta.

Non meno seducenti gli altri temi iconografici più rari ed insoliti che ricorrono nelle opere in mostra. Come quelle realizzate nella bottega e fornace Pozzo Garitta di Albisola Marina: il melanconico Paesaggio (1950-51), la stilizzata e rarefatta  terraglia  La pioggia (1950-51), la sorprendente Donna in giallo (1950-51) e la meravigliosa terracotta policroma Il Gallo (1955), dal movimento sinuoso che asseconda la circolarità del piatto.

Infine anche tutte le altre opere esposte nel percorso museale di Atessa non smettono di stupire e di riservare sorprese, di comunicare emozioni intense e di motivare riflessioni profonde. Le opere di Aligi Sassu, ricche di un fascino senza tempo, continuano ad ammaliare i visitatori con la grammatica espressiva del colore che, soprattutto nella ceramica, riverbera riflessi cromatici di rara bellezza e sfumature di luce cariche di rimandi simbolici e di valenze culturali.